Quando, nel contesto di un’inchiesta giudiziaria, vi sono delle toghe intercettate, è un po’ come se si scoperchiasse il mitologico vaso di Pandora. Se poi la conversazione riguarda un politico, magari anche uno di rilievo, voilà, les jeux sont faits. E lo spettacolo della giustizia a orologeria può ripartire.
La Verità sulle toghe intercettate
«Le chat dei magistrati su Salvini: “Ha ragione, però va attaccato”». Questo il titolo del quotidiano La Verità che ha scatenato la polemica politica – e l’ira funesta del segretario della Lega.
Il giornale diretto da Maurizio Belpietro ha infatti pubblicato il contenuto di alcuni colloqui privati tra toghe intercettate nell’ambito degli accertamenti su Luca Palamara. Proprio il magistrato romano, indagato dalla Procura di Perugia per corruzione, si è lasciato andare a valutazioni assai poco lusinghiere nei confronti del Capitano. Valutazioni centrate sui Decreti Sicurezza fortemente voluti dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Fin qui, per carità, è tutto assolutamente legittimo. Sgomberando infatti il campo da equivoci, non può essere minimamente messo in discussione il diritto di chiunque – toghe comprese – alla propria opinione politica. Sotto accusa è piuttosto l’eccesso – oltre all’interpretazione, diciamo, un po’ lasca di un caposaldo del diritto che affonda le sue radici nell’opera di Montesquieu.
«È inammissibile che, seppur in chat private, dei magistrati giudichino un Ministro come è stato fatto» ha dichiarato Nicola Morra, presidente pentastellato della Commissione Antimafia. «Un magistrato è sempre parte di un corpo terzo, c’è pur sempre una distinzione netta tra poteri» dello Stato.
Le toghe intercettate e gli insulti all’ex Ministro
Il potere giudiziario si esprimeva, tra l’altro, nei termini seguenti: «C’è quella m***a di Salvini, ma mi sono nascosto». Così parlò Palamara.
Forse, però, ancora più grave è un altro passaggio, segnato dallo stesso protagonista. Nella chat era intervenuto Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, che esprimeva le proprie perplessità.
«Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il Ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c’entri la Procura di Agrigento».
Sconcertante la replica dell’ex presidente dell’ANM: «Hai ragione. Ma ora bisogna attaccarlo».
In altre occasioni, si esprimevano i timori per il crescente consenso del leader leghista. E Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva dell’Associazione Nazionale Magistrati, tuonava contro i colleghi rei di non aver fatto le barricate contro i Dl Sicurezza. «Cordata pericolosissima», li definiva.
Parole che hanno provocato la dura reazione dell’ex titolare del Viminale. Che si è chiesto se sia un comportamento normale per un Paese libero e democratico, evocando piuttosto Stati quali Cina, Venezuela e Corea del Nord.
L’appello di Salvini a Mattarella
A ottobre, il capo dell’opposizione si presenterà davanti al Gup presso il Tribunale di Catania per l’udienza preliminare sul caso Gregoretti. Su di lui pende l’accusa «di sequestro di persona per fatti compiuti nell’esercizio delle mie funzioni di Ministro dell’Interno». Accusa che l’ex Pm Carlo Nordio ha eufemisticamente definito «incredibile», soprattutto «dopo che il Capo del Governo ha sequestrato in casa sessanta milioni di Italiani per il coronavirus».
Per questo, anche alla luce delle succitate rivelazioni, Salvini ha chiamato e poi inviato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Per esprimergli il proprio stupore e lanciargli un vero e proprio appello.
«La fiducia nei confronti della Magistratura adesso vacilla al cospetto delle notizie sugli intendimenti di alcuni importanti magistrati italiani» ha scritto il senatore milanese. «Tutto ciò» ha proseguito, «desta in me la preoccupazione concreta della mancanza di serenità di giudizio tale da influire sull’esito del procedimento a mio carico».
Per questo motivo «mi appello al Suo ruolo istituzionale». Affinché sia garantito, come dev’essere per chiunque, «il diritto ad un processo giusto, davanti a un giudice terzo e imparziale, nel rispetto dell’art. 111 della Costituzione».
E, del resto, con quale spirito potranno ora sentenziare i giudici catanesi, sapendo che in ogni caso graverà su di loro un’ombra di diffidenza? Che li si potrà tacciare di aver seguito l’ideologia se condanneranno il Capitano, di voler stornare da sé il sospetto qualora lo assolvessero?
La parola è d’argento…
Nel frattempo, a fare scalpore è anche il silenzio assordante di quella parte di arco costituzionale che si dice garantista – magari a giorni alterni. «Mi fa specie che da sinistra non abbiate detto una parola su quella che è una vergogna» ha attaccato Salvini dal Senato. Riferendosi, forse, anche all’altro Matteo, quel Renzi che, dopo aver salvato un Guardasigilli di cui da mesi chiedeva le dimissioni, non ha trovato il tempo per certe quisquilie.
Se però il silenzio è d’oro, la parola è d’argento, e in qualche caso anche di metallo molto meno nobile. Così, ad esempio, in ambienti giudiziari c’è chi ha puntato l’indice contro la pubblicazione dei dialoghi carpiti dagli inquirenti.
Tralasciando il fatto che il saggio indica la luna, e non il dito, hanno perfettamente ragione. Infatti è una barbarie che finiscano sui giornali testi privati e privi di qualsivoglia rilevanza penale. Solo che deve valere sempre, non soltanto nei casi in cui ci sono delle toghe intercettate. E, da questo punto di vista, quei magistrati che si sono sempre opposti a leggi spregiativamente definite “bavaglio” non possono che piangere se stessi.
Il festival dell’ipocrisia
Tuttavia, il festival dell’ipocrisia lo hanno vinto, e con un ampio margine, i manettari dattilografi al servizio del peggior giustizialismo. I quali hanno fatto una polemica sintattica sull’uso del plurale “magistrati”, quando «le parole incriminate sono attribuibili» al solo Palamara.
Come se la mancanza di reazioni delle altre toghe intercettate non fosse altrettanto significativa. Senza contare il fatto che Palamara, proprio per via dell’inchiesta a suo carico, sarà anche caduto in disgrazia presso l’house organ ufficioso del M5S. Ma resta sempre il magistrato che, da consigliere del CSM, organizzava cene per condizionare le nomine di alcune Procure, tra cui quella di Roma.
E, infatti, neppure Alfonso Bonafede, Ministro grillino della Giustizia, ha potuto far finta di niente. «C’è un’indagine che ha portato alla luce delle intercettazioni, che sono state inviate anche al Ministero della Giustizia» ha dichiarato il titolare di via Arenula. Previa valutazione dell’ispettorato, il dicastero considererà «l’azione disciplinare nei confronti delle persone coinvolte».
E poi capiremo se la giustizia possa essere anche di questo mondo. E se, oltre che a Berlino, c’è un giudice pure in Italia.
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