Mentre scrivo, preso dai morsi della fame, sto mangiucchiando una mela. La mangio con la buccia. Forse sulla buccia, nonostante l’abbia lavata, sono ancora presenti residui di pesticidi e altre sostanze chimiche utilizzate per la sua coltivazione. Mi dovrei preoccupare? Si sente e si legge di tutto al riguardo: che non si dovrebbe comperare frutta «trattata», e che addirittura i pesticidi utilizzati sono cancerogeni. La paura dei residui di pesticidi nel cibo è abbastanza diffusa, e probabilmente è anche per questo che negli ultimi anni gli alimenti da agricoltura biologica hanno aumentato le loro quote di mercato e godono di un continuo aumento di consumatori. Ma si tratta di una preferenza fondata?
L’agricoltura oggi
L’agricoltura moderna fa largo uso della chimica per proteggere le colture da infestanti e parassiti. Le sostanze impiegate sono collettivamente identificate dal termine «pesticidi» e comprendono gli erbicidi per eliminare le piante infestanti, gli insetticidi, i fungicidi e così via. Queste sostanze sono strettamente regolamentate. Alcune si possono usare solamente per determinate colture e in dosi ben specificate. In più l’agricoltore deve rispettare i cosiddetti «tempi di carenza», ossia un intervallo di sicurezza tra l’ultimo trattamento e la raccolta. Il rispetto dei tempi di carenza serve a garantire la salubrità delle derrate alimentari in commercio, lasciando il tempo al pesticida di degradarsi e di ridurre la propria concentrazione sul prodotto destinato al consumo.
Agricoltura bio
Chi, invece, coltiva alimenti biologici, la gran parte di queste sostanze non può essere utilizzata e la produzione è disciplinata in Europa da un regolamento del Consiglio della CEE. Secondo i principi enunciati in quel documento, la protezione delle colture da insetti, piante infestanti, funghi o altro deve avvenire senza l’ausilio di pesticidi di sintesi chimica ma solo utilizzando quelli di origine naturale oppure alcune sostanze usate tradizionalmente quali il solfato e l’idrossido di rame, lo zolfo, la paraffina, alcuni oli minerali e così via.
Ma attenzione ciò che è «naturale» non significa necessariamente «innocuo».
L’impatto ambientale di alcune di queste sostanze è tutt’altro che trascurabile. Il rotenone ad esempio, per via della sua tossicità, è in via di eliminazione dai protocolli di coltivazione biologica mentre i sali di rame, ampiamente utilizzati ad esempio nella coltivazione della vite, sono sostanze tossiche che non vengono eliminate facilmente dal terreno.
La realtà sapete qual è?
Che esistono prodotti di sintesi meno dannosi di alcune sostanze ammesse in agricoltura biologica, ma poiché sono contrari alla «filosofia» del biologico non si possono utilizzare, anche se il loro impatto ambientale è minore.
In alcuni rari casi l’agricoltore biologico può fare uso di sostanze normalmente non permesse, ad esempio quando vi è un incombente pericolo per le coltivazioni, oppure quando le autorità nazionali impongono la cosiddetta «lotta obbligatoria» a particolari parassiti.
È indubbio tuttavia che l’agricoltore biologico disponga di «armi» più ridotte per proteggere le proprie piante rispetto a chi coltiva in modo tradizionale, ed è anche per questo che il metodo biologico è considerato da molti «amico dell’ambiente».
Il consumatore di cibi biologici non si aspetta di trovare residui di pesticidi di sintesi e ritiene, per questo motivo, che questi alimenti siano più «sicuri». Un sondaggio di Eurobarometro riporta che il 28 per cento dei cittadini europei si ritiene «molto preoccupato» per i residui di pesticidi nella verdura, nella frutta e nei cereali. Il 42 per cento si dichiara «abbastanza preoccupato». In Italia queste percentuali sono rispettivamente addirittura del 37 cento e del 49 per cento.
La legislazione stabilisce che i residui presenti nei prodotti in commercio non debbano superare un certo limite. Questi valori sono spesso interpretati dal consumatore come soglie di sicurezza. In realtà, come ci ricorda l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, «nella maggior parte dei casi queste soglie sono ben al di sotto dei livelli tossicologicamente accettabili»: anche quando «i residui eccedono i limiti di legge, non significa necessariamente che la salute del consumatore sia a rischio. In questo caso è necessario fare una stima dell’esposizione probabile e confrontare questi dati con i valori di riferimento tossicologici, al fine di stabilire se il cibo pone un rischio sanitario al consumatore».
È importante chiarire che le colture biologiche non sono sottoposte a livelli più restrittivi di pesticidi rispetto a quelle tradizionali. Ovviamente ci si aspetta che ce ne siano meno, o che non ce ne siano del tutto, ma la certificazione non è sul prodotto finale bensì sul metodo di produzione.
Questo è uno degli equivoci di fondo che l’agricoltura biologica si porta dietro sin dalla nascita. I controlli a cui le aziende del settore sono periodicamente sottoposte accertano che la produzione non si avvalga, ad esempio, di sostanze non autorizzate. Questo però non implica che non si possano trovare nel prodotto finale, perché potrebbero provenire da una contaminazione del suolo o dell’acqua, o essere stati aggiunti nelle fasi di trasporto o di stoccaggio. Non c’è nulla nei regolamenti che obblighi i prodotti finali ad avere determinate caratteristiche, proprio perché la legislazione si occupa solo del metodo di produzione.
I controlli sulla salubrità dei prodotti venduti in Italia vengono effettuati dal ministero della Salute attraverso vari laboratori autorizzati sparsi sul territorio. Vengono monitorati, con controlli a campione, i livelli massimi accettati di residui di pesticidi, i livelli di tossine dovute a funghi e muffe, i livelli di contaminazione microbiologica e così via. I prodotti biologici e quelli convenzionali debbono sottostare agli stessi limiti di legge, non essendo previsti valori specifici per il biologico.
Le ricerche svolte negli ultimi anni dimostrano che gli alimenti convenzionali con residui di pesticidi oltre i limiti sono una piccola percentuale. Per i prodotti biologici il dato è ancora inferiore. Nel caso degli alimenti per bambini, che hanno vincoli più restrittivi, solo lo 0,6 per cento non era conforme alla legge.
I campioni fuori norma solitamente non rappresentano una minaccia per la salute. Nel caso di rischi potenziali considerati inaccettabili si agisce riducendo i livelli permessi e/o revocando il permesso d’uso di alcune sostanze.
In Europa il continuo monitoraggio degli alimenti che assumiamo ne garantisce la sicurezza e rende i rischi sanitari derivanti dai residui di pesticidi estremamente piccoli. Sono molto più elevati, a volte anche con esito fatale, ad esempio i rischi da avvelenamento e intossicazione microbiologica.
L’uomo tuttavia non è un essere perfettamente razionale e spesso basa le sue decisioni e il suo agire non sui rischi effettivi ma sulla loro percezione. Nel caso dei pesticidi il rischio percepito è sicuramente molto superiore a quello effettivo. Ecco perché alcune persone si rivolgono ai prodotti biologici, anche se sono più costosi. C’è chi fuma, ad esempio, ma acquista prodotti biologici per ridurre il rischio da pesticidi. Una delle paure più diffuse è che queste sostanze possano provocare il cancro. Per capire che cosa c’è di vero dobbiamo esaminare che cosa si intende con la parola «cancerogeno».
Gli agenti cancerogeni
L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro classifica gli agenti cancerogeni – sostanze chimiche, muffe, virus, batteri, radiazioni e altri elementi che potrebbero causare il cancro negli esseri umani – in cinque categorie.
Il Gruppo 1, «cancerogeni per l’uomo», comprende gli agenti sicuramente cancerogeni per gli esseri umani. Potrà stupire sapere che sono sorprendentemente pochi gli agenti di cui è dimostrata senza ombra di dubbio la cancerogenicità in determinate dosi e circostanze. Accanto ai ben noti benzene, amianto, cadmio, fumo e formaldeide, abbiamo agenti biologici come il virus di Epstein-Barr, i virus dell’epatite B e C e il papilloma virus. Ma abbiamo anche la radiazione solare e i raggi X, alcune aflatossine e le bevande alcoliche, l’arsenico presente in tracce anche nell’acqua che beviamo e le esposizioni professionali all’alluminio, al catrame per pavimentare le strade e così via. Sono in tutto 108 agenti.
Il Gruppo 2A, «probabili cancerogeni per l’uomo», comprende quegli agenti per cui vi sono prove sufficienti di cancerogenicità sugli animali in laboratorio e prove limitate che lo siano anche per l’uomo, perché ad esempio mancano delle indagini epidemiologiche specifiche. Questo gruppo comprende 66 agenti, tra cui i gas esausti dei motori diesel, le radiazioni ultraviolette, i composti del piombo, il tricloroetilene, alcune nitrosammine che si generano anche dai nitriti e nitrati che assumiamo dai cibi, un parassita come il Clonorchis sinensis, e il cloramfenicolo, un antibiotico.
Il Gruppo 2B, «possibili cancerogeni per l’uomo», comprende agenti sui quali esistono prove limitate di cancerogenicità sia sull’uomo sia sugli animali. La lista comprende 248 agenti. Oltre a molte sostanze chimiche che conosciamo, composti clorurati, aniline e così via, troviamo anche prodotti curiosi o inaspettati come i vegetali sottaceto preparati alla maniera asiatica, il caffè, il fenobarbital, il biossido di titanio usato in vari cosmetici «naturali» e il safrolo contenuto nella noce moscata, nel pepe, nello zafferano e in molte altre spezie.
Il Gruppo 3, «non classificabili come cancerogeni per l’uomo», comprende 515 agenti la cui cancerogenicità per l’uomo o per gli animali non è comprovata da dati sufficienti. Insomma, sono solo «sospettati». Anche qui molti nomi noti: ci sono alcune aniline, l’atrazina, la caffeina, la polvere di carbone, alcuni coloranti, la cumarina presente nella cannella e in molti altri vegetali, il diazepam, l’aciclovir, i campi elettrici a bassa frequenza, i fluoruri nell’acqua potabile, il paracetamolo, il tè, le tinture per capelli e molti altri agenti.
Nel Gruppo 4, «probabilmente non cancerogeni per l’uomo», c’è una sola sostanza, il caprolattame, da cui si ricavano varie fibre sintetiche, tra cui il nylon.
Insomma, sappiamo con certezza che 108 agenti sono cancerogeni per l’uomo, e si hanno fondati sospetti che lo siano altri 66. Altri 248 potrebbero esserlo ma non ne siamo sicuri, mentre 515 agenti non hanno dato prove certe neppure sugli animali. In tutto, meno di mille agenti.
E tutti gli altri? Nel campo delle sostanze chimiche, naturali o di sintesi, conosciamo milioni di diversi composti chimici, in grande maggioranza sostanze naturali. Che cosa sappiamo del loro effetto sull’uomo? Quasi nulla di certo. Eppure non passa giorno che una certa sostanza o molecola non venga bollata come cancerogena sui giornali.
Allora cosa fare?
A mio avviso il futuro è ritornare al passato, sì è proprio così!!!! … una delle cose che si può iniziare a fare è coltivare il proprio cibo, pensate che in America esiste un movimento di coltivatori urbani denominato Propaganda Gardening, un incrocio di guerrilla gardening e protesta, che si propone di risvegliare la coscienza politica attraverso il ritorno alla coltivazione su piccola scala. Ma al di fuori di ogni fatto socio-politico anche giusto, coltivare in proprio ci assicura quello che io chiamo il “vero biologico” senza l’utilizzo di nulla di chimico anche perché sarebbe da pazzi suicidi avvelenarsi da soli, riducendo la dipendenza da un sistema alimentare industriale inquinato, accresce la salute e il benessere facendoti fare esercizio fisico e producendo cibo nutriente, ci libera dalla dipendenza da alcune medicine, ci aiuta a rimediare ai danni che stiamo facendo all’ambiente con lo stile di vita consumistico e ci protegge dall’insicurezza e dalla scarsità di cibo.
Ognuno dovrebbe coltivare il proprio orticello (e non nell’accezione egoistica del termine) e magari ideare delle reti di cittadini che si interscambiano, solo ed esclusivamente con il sistema del baratto, le proprie produzioni opportunamente fra di loro. Chiaramente le “autocoltivazioni” possono essere un inizio, ma in un futuro si potrebbe immaginare (come d’altronde facevano le nostre nonne) andare oltre con gli animali da cortile (per esempio le galline per le uova) diventando man mano sempre più indipendenti su ciò che mangiamo.
La politica, a mio avviso, dovrebbe dare una mano a questo processo magari facendo corrispondere ad ogni soluzione abitativa un commisurato orto pertinenziale al fine di avere dei veri e propri orti condominiali. Ultimamente, ci sono dei progetti nelle città italiane più importanti che si affiacciano timidamente a questa opportunità. La speranza che nel prossimo futuro i nostri figli possano davvero mangiare del tutto naturale, biologico e autoprodotto.
Come sempre il miglioramento della vita corrisponde a un cambiamento radicale delle (cattive) abitudini!
Domenico di Catania
Economista ed esperto enogastronomico
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