Spazio, nell’Universo primordiale un “mostro” che non dovrebbe esistere
Scoperto un buco nero da Guinness dei primati, distante 13 miliardi di anni luce e capace di inghiottire l’equivalente di un Sole al giorno. Si chiama Pōniuāʻena, e potrebbe riscrivere le attuali teorie sulle origini dei black holes
Lo spazio è un enigma che non cessa mai di sorprendere e affascinare. Per ogni risposta che troviamo, sorgono infatti nuove domande: è questo, d’altronde, il bello della ricerca scientifica. Vale anche per l’ultima grande scoperta in campo astronomico. Un buco nero “anomalo” che potrà aiutarci ad aumentare la nostra comprensione dell’Universo.
Un mostro galattico nello spazio
È un black hole da Guinness dei primati quello
descritto in uno studio
appena pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical
Society. È stato individuato nel 2018, ma solo ora analisi più approfondite
ne hanno svelato la natura. Che è quella di un mostro galattico, smisuratamente
grande e smisuratamente vorace.
Tecnicamente si tratta di un quasar – termine che
deriva dalla contrazione di QUASi-stellAR radio source, cioè “radiosorgente quasi
stellare”. Lo
hanno chiamatoPōniuāʻena, termine hawaiano che significa “sorgente
rotante invisibile della creazione, circondata da luminosità”. Un omaggio ai
tre osservatori, situati proprio nelle isole Hawaii, che hanno
rilevato l’oggetto nelle profondità dello spazio.
La natura dei quasar non è ancora stata completamente chiarita,
ed è tuttora oggetto di indagini e dibattiti. Di norma sono dei giganti
cosmici, e Pōniuāʻena non fa eccezione, avendo una
massa pari a 34 miliardi di volte quella del Sole. Per fare un
paragone, è 8.000 volte più grande del black hole al centro della Via
Lattea, Sagittarius A*.
Al suo interno, il quasar ospita un buco nero altrettanto da record, con una massa 1,5 miliardi di volte superiore a quella della nostra stella. E, come spesso accade, questo colosso dimora a sua volta in mezzo a una galassia, di nome J2157.
I buchi neri non sono poi così neri
Un’altra caratteristica dei quasar è la spiccata
luminosità, pari a quella di miliardi di stelle, e a volte di intere
galassie. Tale brillantezza potrebbe sembrare un controsenso, visto che i black
holes sono come dei ciclopici aspirapolveri che divorano tutto ciò che
incontrano, inclusa la luce.
La realtà, però, è che i buchi neri non sono poi così
neri. Essi emettono infatti delle radiazioni, di natura sia elettromagnetica
che termica: è la radiazione di Hawking, dal nome del suo scopritore, il
grandissimo Stephen Hawking.
Per quanto riguarda i quasar, si ritiene che la loro “innaturale”
luminosità derivi dall’attrito generato dalla caduta di gas e polveri in
un black hole supermassiccio. Tale processo convertirebbe metà
della massa in energia, anche se il suo meccanismo è ancora ignoto. Anche in
questo caso, comunque, Pōniuāʻena non fa eccezione: anzi, ha conquistato il
record di quasar
più brillante a oggi conosciuto.
Nella norma è anche il suo “appetito pantagruelico” – un’ulteriore
peculiarità di questi corpi celesti. Pare infatti che Pōniuāʻena sia
capace di inghiottire ogni giorno l’equivalente del nostro Sole. Il
che, date le sue dimensioni, non sorprende più di tanto.
Gli autori della ricerca hanno infatti calcolato
l’estensione dell’orizzonte degli eventi del buco nero – cioè il confine
all’interno del quale nulla può più sfuggire. E hanno rilevato che è oltre
cinque volte più ampio dell’intero sistema solare.
Un mistero dalle profondità dello spazio
La buona notizia è che Pōniuāʻena si
trova a circa 13,02 miliardi di anni luce da noi. Per capire a
quanto corrisponde quest’intervallo spaziale, occorre considerare che un anno
luce è la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un anno (terrestre).
Che, più o meno, equivale a 9.500 miliardi di chilometri. Per raggiungere il
quasar, bisogna moltiplicare questo numero per 13,02. Una distanza astronomica
(è il caso di dirlo) di assoluta sicurezza. Che però costituisce un
vero e proprio mistero.
Pōniuāʻena, infatti, fa parte dell’Universo primordiale,
essendosi formato “appena” 700 milioni di anni dopo il Big Bang. È uno
dei due unici quasar “precoci” conosciuti, e tra di essi è decisamente il più
grande – il doppio
dell’altro.
Secondo l’attuale
teoria sulla nascita e l’accrescimento dei black holes, questi
oggetti dovrebbero derivare da buchi neri più piccoli. Che a loro volta
sarebbero stati generati dal collasso di una stella morente. Nel caso di
Pōniuāʻena, però, le tempistiche non tornano.
In base agli odierni modelli cosmologici, infatti,
stelle, galassie (e anche i black holes) sarebbero apparsi “solo”
300-400 milioni di anni dopo il Big Bang. Tuttavia, affinché Pōniuāʻena potesse
raggiungere le dimensioni che oggi vediamo, avrebbe dovuto iniziare a formarsi
ad “appena” 100 milioni di anni dall’esplosione primigenia.
La realtà e che «non
sappiamo ancora come si è formato» ha ammesso l’astrofisico Christopher Onken, primo
firmatario dello studio. Il che significa che questo quasar potrebbe portare a
riscrivere i paradigmi correnti. E, forse, la storia stessa del giovane
Universo.
Mirko Ciminiello è nato a Rimini nel 1985 e vive a Roma, dove si è laureato in Chimica (triennale) e Chimica Organica e Biomolecolare (specialistica) alla Sapienza, in Scienze della Comunicazione (triennale) e Scienze Cognitive della Comunicazione e dell'Azione (magistrale) a Roma Tre.
Giornalista, attore per hobby, collabora con l'associazione Pro Vita e Famiglia ed è autore di 9 libri, di cui due in inglese.
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