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Pasqua, nell’amore di Cristo è il senso più profondo della solennità

La festa, di origine ebraica, commemora la risurrezione di Gesù, che si è caricato i peccati del mondo per redimere l'intera umanità

In quest’anno 2020, la parola Quaresima ha fatto rima con quarantena. Curiosamente, i due termini hanno la stessa origine, che rimanda al numero 40, e in particolare a un intervallo di quaranta giorni.

Mai come quest’anno (almeno nella Storia recente), quelli che precedono la Santa Pasqua – o meglio, la Domenica delle Palme – sono stati un tempo di penitenza e, sovente, di riflessione. Anche sul significato della festa più importante per i Cristiani, la solennità fondante del Cristianesimo.

Le origini della Pasqua

La parola “Pasqua” deriva dall’ebraico Pesach, che vuol dire “passaggio”, con una triplice accezione. Il Libro dell’Esodo racconta che Dio inviò il profeta Mosè a riscattare il popolo d’Israele dalla schiavitù in Egitto: al rifiuto del Faraone fecero seguito le famosissime dieci piaghe, l’ultima delle quali fu la morte dei primogeniti egiziani.

In quell’occasione, come prescritto dal Signore, gli Ebrei consumarono del pane azzimo e immolarono un agnello, di cui poi posero il sangue sulle porte delle proprie abitazioni: in questo modo, l’Angelo della Morte avrebbe riconosciuto le case degli Israeliti e sarebbe passato oltre.

Il termine Pesach fa principalmente riferimento a questo episodio, ma ha anche un valore metaforico legato alla liberazione degli Ebrei dalla schiavitù: secondo il racconto biblico, infatti, dopo la morte del suo primogenito il Faraone si risolse finalmente a far partire gli Israeliti, salvo pentirsene quasi subito e lanciarsi al loro inseguimento con i propri carri e i propri soldati.

Proprio quando sembrava che gli Israeliti fossero in trappola, Mosè, come indicatogli da Dio, stese il suo bastone sopra le acque del Mar Rosso che, sotto la spinta di un forte vento d’Oriente, si aprirono per lasciar passare gli Ebrei. Quando tutti gli Israeliti furono in salvo, il Signore ordinò a Mosè di stendere la sua mano sulle acque: immediatamente, il mare si richiuse sopra l’esercito egiziano che lo attraversava, sommergendo e annegando tutti gli inseguitori.

La Pasqua cristiana

Proprio come la ricorrenza ebraica, anche la Pasqua cristiana ha sia un significato letterale che metaforico. Essa commemora la risurrezione di Gesù Cristo, celebrando quindi tanto la transizione dalla morte alla vita che il passaggio dalla schiavitù del peccato alla vera e autentica libertà della redenzione.

Sulla data dell’evento originario non c’è concordanza tra gli storici: per esempio, secondo don Franco Ardusso (1935-2005) la risurrezione avvenne il 9 aprile dell’anno 30, mentre secondo Ruggero Sangalli (1961) si verificò il 1° aprile dell’anno 33. Un’antica tradizione, ancora in voga ai tempi di Francesco Petrarca (che la rievocò nel sonetto Era il giorno ch’al sol si scoloraro) l’aveva invece fissata all’8 aprile. Oggi, comunque, la Pasqua cristiana è una festa mobile: nel 325, infatti, il primo Concilio di Nicea stabilì che cadesse la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, convenzionalmente fissato al 21 marzo (anche se quello astronomico oscilla tra il 19 e il 21 del mese di Marte).

I quattro Evangelisti (San Matteo, San Marco, San Luca e San Giovanni) hanno riportato in modo abbastanza concorde il racconto della Passione e morte di Gesù, a partire dall’Ultima Cena del Giovedì Santo per proseguire con il duplice processo religioso e civile, la condanna, l’ascesa del Calvario, la crocifissione e il trapasso del Figlio di Dio. Eventi preannunciati secoli prima dalle Sacre Scritture, come ad esempio i Canti del servo del Signore (soprattutto il quarto) di Isaia o il Salmo 21, il cui incipit («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») venne gridato da Gesù crocifisso nel celeberrimo Elì, Elì, lemà sabactàni?

I Vangeli hanno descritto anche l’iscrizione posta sulla croce, che indicava il motivo della condanna del Cristo: Gesù il Nazareno, Re dei Giudei, che in latino forma l’acronimo INRI, iniziali dell’espressione Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum. San Giovanni riferisce che il cosiddetto Titulus crucis era scritto in tre lingue (le altre erano ebraico e greco), e che i capi dei sacerdoti – i principali responsabili dell’ingiusta sentenza – si erano scandalizzati nel leggere l’iscrizione, tanto da chiedere al prefetto Ponzio Pilato di modificarla: ricevendo in risposta il noto Quod scripsi, scripsi.

Lo scrittore francese Henri Tisot (1937-2011) ha ipotizzato la ragione di questo apparente, incomprensibile accanimento. Consultando diversi rabbini, scoprì infatti che la traduzione in aramaico del Titulus crucis corrisponde alla dizione ישוע הנוצרי ומלך היהודים che, considerando che l’ebraico si legge da destra verso sinistra, equivale al nostro “Yshu Hnotsri Wmlk Hyhudim”, vocalizzato come “Yeshua Hanotsri Wemelek Hayehudim“. Prendendo le iniziali come per il latino INRI, si ottiene יהוה, “YHWH“, ovvero il Tetragramma Divino, l’impronunciabile Nome di Dio.

Si compiva quindi la parola di Gesù che, nel testo giovanneo, aveva profetizzato che «quando avrete innalzato il Figlio dell’Uomo, allora riconoscerete che Io Sono»: la locuzione che, nell’Esodo, designa proprio il nome di Dio. Quando infatti Mosè, ricevuto dal Signore il mandato di convincere gli Israeliti a uscire dall’Egitto sotto la sua guida, obiettò che gli avrebbero chiesto Chi lo avesse inviato, Dio gli rispose: «Io sono colui che sono!», e aggiunse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi».

Gesù è davvero risorto?

Il Figlio di Dio, dunque, moriva intorno alle 3 del pomeriggio del Venerdì Santo, venendo quindi avvolto in un sudario e deposto in un sepolcro scavato nella roccia, che venne poi sigillato. Nel terzo giorno dopo la Sua scomparsa, il giorno dopo il sabato, alcune discepole – tra cui vi era sicuramente Maria di Magdala – si recarono alla Sua tomba trovandola vuota. Sgomente, temettero che qualcuno avesse trafugato il corpo di Gesù, ma all’improvviso una o due figure angeliche apparvero loro annunciando che il Cristo aveva vinto la morte: messaggio che fu subito seguito dalla prima apparizione del Signore risorto alla sola Maria Maddalena.

Si badi che l’importanza che le donne rivestono soprattutto in questa vicenda è un forte indizio in favore dell’autenticità del racconto evangelico. A quel tempo, infatti, la testimonianza femminile non era tenuta in nessun conto, come annotava lo storico Giuseppe Flavio (ca. 37-100 d.C.): anche se c’è chi, con una battuta, ha sostenuto che Gesù si sia manifestato inizialmente alle pie donne per essere sicuro che la notizia della risurrezione avesse una pronta e rapida diffusione.

Se dunque qualcuno avesse voluto redigere un testo fasullo per poi spacciarlo per vero, non si sarebbe mai servito di un simile espediente: così come verosimilmente avrebbe illustrato, magari imbellettandolo con effetti speciali, il più importante dei miracoli – di cui invece nei Vangeli non c’è alcuna descrizione. Cosa che da qualcuno viene interpretata come segno dell’ingenuità dei credenti, ma in realtà si spiega solo ammettendo che gli Evangelisti abbiano messo per iscritto solo ciò che gli Apostoli videro realmente: tanto più che rischiavano di essere accusati di una narrazione poco credibile, nonché di essere smentiti da testimoni diretti ancora in vita – considerando che l’ultimo Vangelo, quello di San Giovanni, è stato probabilmente composto intorno all’anno 90.

Proprio Giovanni, il «discepolo che Egli amava», fu il primo a capire che Gesù era davvero risorto. Quando infatti, sollecitati dall’allarme di Maria Maddalena, lui e Simon Pietro corsero al sepolcro, videro «i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte». Questa versione della Cei, che però non rispecchia esattamente l’originale greco.

Nella dizione classica, San Giovanni vide τὰ ὀθόνια κείμενα (tà othónia keímena), e il verbo κεῖμαι (keîmai), da cui deriva il participio κείμενα, ha un significato ben preciso, quello di essere disteso in una posizione orizzontale. Allo stesso modo, il sudario viene descritto come οὐ μετὰ τῶν ὀθονίων κείμενον ἀλλὰ χωρὶς ἐντετυλιγμένον εἰς ἕνα τόπον (ou metà tôn othoníon keímenov allà khorìs entetyligménon eis éna tópon), il che indica che non era disteso (κείμενον, di nuovo) con le altre bende (μετὰ τῶν ὀθονίων), ma al contrario (χωρὶς) arrotolato (ἐντετυλιγμένον) in una posizione unica, singolare (εἰς ἕνα τόπον).

Come dunque aveva già compreso un sacerdote, don Antonio Persili (1923-2011), i due discepoli avevano trovato le fasce distese, afflosciate senza essere state sciolte o manomesse: «erano rimaste immobili al loro posto», e «le tele si erano afflosciate su se stesse», laddove «il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva sollevato, in maniera quasi innaturale». Ecco il motivo per cui San Giovanni, una volta entrato nel sepolcro, εἶδεν καὶ ἐπίστευσεν (eîden kaì epísteusen), cioè «vide e credette».

La tradizione delle uova

Per molti, oggi, la Pasqua si riduce al rito dello scambio delle uova di cioccolata, che in realtà è abbastanza recente. Fin dai tempi antichi, tuttavia, l’uovo è stato considerato un simbolo della vita. Il Cristianesimo ha ripreso queste tradizioni, adattandole alla prospettiva del Cristo risorto: l’uovo, infatti, assomiglia a un sasso e sembra inerte, proprio come un sepolcro; al contempo, però, racchiude una nuova vita, simboleggiando pertanto la risurrezione di Cristo.

Nel Medioevo, in occasione della Pasqua, si diffuse l’usanza di donare uova vere, decorate con disegni o dediche. Da qui, nel XIX secolo, l’orafo Carl Fabergé (1846-1920) trasse l’idea per realizzare delle ricche uova per gli Zar di Russia Alessandro III (1845-1894) e Nicola II (1868-1918): questi gioielli contenevano una sorpresa, e la fama di Fabergé contribuì a diffondere la tradizione del dono all’interno dell’uovo.

Solo nel XX secolo si è invece affermata la moda dell’uovo di cioccolato, che potrebbe però aver tratto origine dai prototipi realizzati nel Settecento dai mâitres chocolatiers torinesi. D’altra parte, questo non è l’unico dolce tipico del periodo pasquale: tra gli altri, vanno ricordati la pastiera napoletana, l’agnello pasquale siciliano (un dolce a base di pasta reale e pasta di pistacchio) e, soprattutto, la colomba.

Una scala verso il Paradiso

Il senso della Pasqua

Dal momento che la Chiesa cattolica, anche in occasione del Concilio Vaticano II, ha rivendicato «senza esitazione la storicità» dei Vangeli, chi crede può concludere con relativa certezza che Gesù Cristo sia davvero risorto. Ci si può chiedere, tuttavia, perché il Figlio di Dio abbia accettato di farsi torturare e crocifiggere, «disprezzato e reietto dagli uomini», solo e abbandonato anche da (quasi) tutti i Suoi discepoli.

La risposta la dà Gesù stesso, quando afferma di fronte a Pilato: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità». Ma si trova anche, ancora una volta, nel quarto Carme del servo del Signore: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità».

Gesù Cristo, che pure avrebbe potuto «pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli», accettò di compiere la volontà di Dio offrendosi come agnello sacrificale per la salvezza di tutti. Caricando su di sé i peccati del mondo, ha redento l’umanità intera. E contemporaneamente ha insegnato agli uomini di ogni tempo che il senso della Pasqua, il senso più profondo della solennità è l’amore: un amore così immenso, così puro, così assoluto da farsi dono incondizionato e disinteressato, risuonando ancora, dopo 2.000 anni, in un mondo che forse con l’epidemia sta riscoprendo la spiritualità, nelle nostre case afflitte dal Covid-19, nel cuore di ogni uomo.