Lo spartiacque è stato il sedicesimo game del quinto set. E fa quasi impressione, a pensarci, quel numero 16 associato ai giochi di una singola partita di tennis. D’altronde, la finale di Wimbledon non è un incontro come tutti gli altri. E quella disputata il 14 luglio 2019, è certamente destinata a figurare negli annali del tennis.
Eppure, c’è stato un momento in cui il match tra Novak Djokovic e Roger Federer sembrava avviato a dover entrare “solamente” nella storia. Ed è stato proprio in quel fatidico sedicesimo game, quando lo svizzero, che nel gioco precedente aveva strappato il servizio al rivale, servendo per i Championships si è trovato avanti 40-15. A quel punto, la fine sembrava ormai imminente, con King Roger pronto ad alzare per la nona volta il trofeo simbolo del “suo giardino”, a quasi 38 anni, un’età in cui la maggior parte dei suoi colleghi ha già da tempo appeso la racchetta al chiodo.
Poi, però, è accaduto l’imponderabile. Gli dei del tennis hanno deciso di riscrivere gli astri. E il serbo numero 1 al mondo, trovando una forza, un’energia, una caparbietà insperate, ha vinto quattro punti di fila, ottenendo il controbreak e consegnando l’incontro al mito.
Lo spettacolo doveva continuare. Un po’ come quando, nell’Iliade, Afrodite salva Paride che sta per soccombere a Menelao nella singolar tenzone che dovrebbe far finire la Guerra di Troia. E, in effetti, anche l’erba di Church Road si è tinta con i colori dell’epos.
Di più. Incredibile dictu, l’ineffabile bellezza dell’epilogo si sarebbe potuta sublimare in un’esperienza quasi metafisica, se non fosse stato per la scellerata decisione di introdurre un tie-break finale sul 12-12 del quinto set: scelta, peraltro, figlia dell’altrettanto scellerata combinazione che l’anno scorso aveva generato una delle peggiori semifinali di tutti i tempi, quella conclusasi 26-24 al quinto per Kevin Anderson su John Isner – due a cui dovrebbe essere vietato arrivare così avanti negli Slam.
Ciononostante, quando alla fine il GOAT (Greatest Of All Times) ha steccato, sancendo il tredicesimo, decisivo gioco di un Nole impeccabile in tutti e tre i tie-break disputati, il tabellone segnava 4h55’. La finale più lunga della storia dei Championships, sette minuti in più del record precedente, stabilito nel 2008, in un altro epico atto conclusivo, che aveva visto ancora il campione elvetico in campo, ancora sconfitto – quella volta dalla sua nemesi, Rafa Nadal, in quello che è da molti considerato l’incontro più bello di tutti i tempi.
Quest’anno si erano ritrovati contro in semifinale, per la prima volta nel tempio del tennis da quel fantastico epilogo di undici anni fa. Un match che riecheggiava ancora delle polemiche dello spagnolo, furioso con gli organizzatori di Wimbledon che avevano scelto di omaggiare Federer della testa di serie numero 2 che, da ranking, sarebbe spettata all’iberico, favorendo così chi aveva uno score migliore sull’erba – cosa che, peraltro, è nella piena facoltà degli organizzatori, tanto che anche gli stessi Anderson e Isner se ne erano giovati.
Poi aveva parlato il campo. E la prestazione dello svizzero era stata così brillante, così sfavillante, da convincere tutti che sì, quello che sembrava un miracolo sarebbe davvero potuto diventare realtà.
Ma, evidentemente, al Fato piace farsi beffe dei Grandi, come quando, sotto le mura di Ilio, Ettore subisce l’inganno di Atena, che gli appare con le false sembianze del fratello Deifobo per indurlo a prendere parte al duello in cui Achille gli toglierà la vita. In modo simile, in queste occasioni il Re sembra essere sempre dalla parte sbagliata della rete.
Ecco perché, a chi gli parlava di finale indimenticabile, l’elvetico ha risposto che lui invece cercherà di dimenticarla. Perché fa male perdere così. Fa male non poter avere due vincitori, dopo un incontro dai contenuti tecnici impressionanti, a tratti quasi irreali. Ed è inutile, ora, sottolineare che King Roger ha vinto più game e più punti di Djokovic (218 a 204 alla fine), o evidenziare il cinismo del serbo nei momenti che più hanno contato. È sufficiente continuare a stropicciarsi gli occhi di fronte alla classe di questi straordinari atleti, ai superbi colpi in controbalzo dello svizzero e alle repliche quasi in ginocchio del serbo, alle volée dell’uno e ai passanti di rovescio dell’altro.
Perché, parafrasando David Foster Wallace, ieri si è assistito a una finale di Wimbledon come esperienza mistica. E la sete dei numi sarà anche stata placata – ma solo fino al prossimo torneo, fino al prossimo spettacolare scambio tra questi immortali fuoriclasse. Come, del resto, prefigurava già uno spot interpretato proprio da Federer: «non segna il tempo, segna la Storia». Una Storia che, a volte, si fa leggenda.
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