«Il 2020 ha quasi il 75% di probabilità di essere l’anno più caldo mai registrato sul pianeta Terra». Così, con questa dichiarazione roboante, gli scienziati del NOAA (National Oceanic and Atmospher Administration, un’agenzia americana che si occupa di oceanografia, meteorologia e climatologia) hanno riportato sotto i riflettori un tema, quello del presunto riscaldamento globale, che l’emergenza coronavirus aveva prepotentemente fatto uscire di scena.
Unico vagito, in queste settimane, era stato un messaggio in cui la lady Melisandre scandinava aveva comunicato che era «estremamente probabile» che anche lei avesse avuto il Covid-19. Tanto per ricordare al mondo la propria esistenza.
Naturalmente, quando gli eco-catastrofisti farneticano di global warming o di cambiamenti climatici intendono qualcosa di fortemente specifico – che contrasta in modo quasi comico con l’estrema vaghezza delle loro definizioni: il fatto che questi fenomeni sarebbero di origine antropica. Poiché però, prima o poi, i nodi vengono sempre al pettine, sono gli stessi dati a smentire – e non è certo la prima volta – i profeti di sventura.
Infatti, proprio per via del coronavirus e del conseguente lockdown su scala planetaria, la Nasa e l’ESA hanno potuto rilevare il crollo dell’inquinamento atmosferico a livello globale. Il che riguarda sostanze come il biossido di azoto (NO2, che è un indicatore della qualità dell’aria), ma anche lo spauracchio per eccellenza, quell’anidride carbonica spacciata per origine di tutti i mali. Come mai, allora, la temperatura non ne segue le oscillazioni, se tra i due fenomeni c’è un rapporto di proporzionalità diretta?
La realtà è che, con buona pace delle cassandre dell’ambientalismo, l’idea che l’uomo abbia sul clima un’influenza così dirompente è una congettura arrogante e assolutamente indimostrata, come puntualizzato la scorsa estate dagli scienziati italiani autori del documento “Clima, una petizione controcorrente”: che, tra le altre cose, evidenziava come l’affermazionismo si basi su modelli matematici del tutto inadeguati a riprodurre la variabilità naturale osservata del clima – che è semplicemente il sistema più complesso presente sul nostro pianeta.
Per esempio, i cosiddetti General Circulation Models non sono in grado di dar conto delle «note oscillazioni climatiche di circa 60 anni» consistenti, fin dal 1850, in un trentennio di riscaldamento seguito da un identico ciclo di raffreddamento; e falliscono completamente nel ricostruire i periodi caldi degli ultimi 10.000 anni, tra cui l’epoca romana nella quale – come magistralmente illustrato dal Premio Nobel per la Fisica e senatore a vita Carlo Rubbia in un’audizione al Senato del 2014 – le temperature erano più alte di adesso nonostante la minor concentrazione di CO2.
Del resto, è noto nella letteratura scientifica che il picco termico di ogni tempo si è avuto circa 8.000 anni fa, in quello che è conosciuto come optimum climatico dell’Olocene, quando la temperatura media era di 1,6 ± 0,8°C maggiore di quella attuale, con punte di 9°C a livello locale – in Siberia, per esempio.
Ancora, lo scrittore e scienziato Michael Crichton, nel suo capolavoro Stato di paura, ha reso perfettamente il senso dell’irrilevanza umana sul climate change attraverso un’efficacissima analogia tra l’atmosfera terrestre e un campo da football americano: sui cento metri dello stadio, la quantità di CO2 presente nella nostra atmosfera corrisponde a due centimetri e mezzo. E, in cinquant’anni, «è aumentata di tre ottavi di centimetro – meno dello spessore di una matita». E queste immissioni non sono neppure attribuibili in toto alle attività umane – si pensi, ad esempio, agli ingentissimi volumi di anidride carbonica prodotti dalle eruzioni vulcaniche.
«L’azione dell’uomo» ha infatti concluso un luminare del calibro di Antonino Zichichi in un’intervista del 2017, «incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali, ad oggi, gli scienziati non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future».
Questi fenomeni includono, stavolta sì con una probabilità talmente alta da rasentare la certezza, le variazioni dell’attività solare, i cosiddetti cicli di Milanković (i cambiamenti periodici dell’eccentricità dell’orbita della Terra, dell’inclinazione e della precessione dell’asse terrestre) e, in misura minore, il vulcanismo.
Certo, gli esperti statunitensi possono sempre appellarsi all’artificio retorico della rilevazione delle temperature, che si verifica “solo” dal 1850. Ma, come avrebbe detto Tito Livio, veritatem laborare nimis saepe aiunt, exstingui nunquam. «Si dice che la verità soffra spesso ma non muoia mai». Anche quando è più mainstream l’ideologia.
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